Storia della Speleologia

Premessa

Datare con una certa precisione l’inizio dell’attività speleologica a Gorizia è, se non cosa impossibile, certamente molto difficile.
Ricostruire poi le vicende storiche ad essa legate è senza dubbio molto affascinante.
Era da tempo che, partendo da queste premesse, tale argomento aveva creato in me la curiosità e lo stimolo per iniziare una approfondita ricerca in tal senso.
Avendo vissuto, almeno in parte, un pezzo significativo di quelle vicende, volevo scavare per quanto possibile nel passato per cercare di capire come si è evoluta la speleologia nella nostra città; allo scopo ho dovuto pazientemente frugare negli archivi della storia e nei meandri della mia memoria.
Non esistendo al riguardo una ricca bibliografia che ne documentasse lo sviluppo e le origini ho dovuto rifarmi in gran parte, almeno per le vicende più recenti, ai racconti orali dei protagonisti che in qualche modo avevano partecipato in prima persona agli avvenimenti in oggetto. Per il resto ho dovuto far la conoscenza con la polvere delle biblioteche.
In questo modo ho potuto constatare, con sorpresa, che in passato l’attività speleologica, o più verosimilmente la frequentazione delle grotte, era una pratica non del tutto estranea ai goriziani che, anzi, nel periodo di tempo che intercorre tra la fine del 1800 e gli inizi del 1900, alcuni di essi lasciarono delle preziose testimonianze scritte delle loro esplorazioni sotterranee.
Ci fu poi un lungo periodo di vuoto, a cavallo tra le due guerre mondiali, in cui la speleologia non trovò grandi spazi, essa venne pertanto praticata saltuariamente ed in modo individuale da giovani goriziani legati per lo più all’ambiente alpinistico triestino.
E sarà proprio Trieste, come vedremo, che farà da madrina alla speleologia goriziana la quale verso la fine degli anni cinquanta comincerà a risvegliarsi da un torpore troppo a lungo maturato. 


Negli anni sessanta dunque, la speleologia a Gorizia non era molto diffusa, e le scarse notizie al riguardo non circolavano facilmente.
Erano tempi in cui per andare nelle grotte sul Carso si doveva consultare il famoso “Duemila grotte” per poter individuare la loro posizione. Questo era soprattutto un libro, dove si poteva scoprire anche il magico mondo sotterraneo attraverso la descrizione di quei luoghi fatta dal fior fiore della speleologia triestina, che poi voleva dire la speleologia italiana per eccellenza.
Ciò indubbiamente stava a dimostrare da un lato che la speleologia triestina aveva già fatto passi da gigante rispetto a quella goriziana, dall’altra testimoniava che questo importante testo era diventato una specie di vangelo un po’ per tutti noi speleologi.
Forse sarà stata appunto colpa di un vecchio e logoro “Duemila grotte”, trovato casualmente nella Biblioteca Civica di Gorizia, che a quel tempo (1967) frequentavo ogni qualvolta riuscivo ad eludere gli impegni scolastici, ma devo riconoscere che quella lettura già allora aveva creato in me lo spunto e la curiosità, legate ad un alone di mistero, che avrebbero condizionato le mie future ricerche.
La storia speleologica legata alla città di Gorizia è pertanto una cosa che mi ha sempre affascinato ed incuriosito fin dalle prime mie esplorazioni.

Anche se devo riconoscere, come già detto, che Gorizia non ha avuto un passato ed una storia speleologica così ricca come quella della vicina città di Trieste, ciò nonostante essa rappresenta un motivo d’interesse non indifferente se si vuole approfondire la conoscenza e capire gli sviluppi della speleologia attuale della nostra regione.
Quando mi sono accinto ad intraprendere questo lavoro di ricerca storica, sapevo quindi di dover affrontare notevoli difficoltà, ma sapevo anche che tale ricerca mi avrebbe portato a delle nuove conoscenze che avrebbero arricchito il complesso e controverso panorama speleologico goriziano.
Non è però facile parlare di speleologia in una città come la nostra dove fino a ieri i pochi gruppi speleologici esistenti erano divisi da futili rivalità ed incomprensibili diffidenze.
Ancora oggi, per dir la verità, si trovano alcune resistenze e difficoltà per avere notizie riguardanti l’attività svolta dai gruppi grotte negli anni ’70, inoltre la documentazione storica è quasi inesistente, cosa questa che di per sè costituisce già un grosso ostacolo a questa ricerca.
D’altronde, se andiamo ad analizzare la vita cittadina del recente passato, le grotte e la speleologia in genere, sono cose che sembrano non interessare molto i goriziani, anzi sembra che essi abbiano verso quest’argomento un atteggiamento piuttosto distaccato, considerando la speleologia quasi il parente povero dell’alpinismo.
Non è casuale che il Gruppo Speleo “L.V. Bertarelli”, forse il più rappresentativo negli anni ’70, pur essendo parte integrante della sezione del C.A.I. di Gorizia, fosse relegato per molti anni negli scantinati di Via Morelli, mentre la sezione alpinistica risiedeva nel piano nobile.
Nonostante queste sconsolanti premesse le ricerche da me condotte hanno portato alla scoperta di alcune notizie storiche di sicuro interesse e indicano che non sempre è stato così.


 

La Storia

 

Una leggenda metropolitana racconta che Dante in esilio nel suo continuo peregrinare, fu ospite di Enrico II Conte di Gorizia; la tradizione vuole che, durante il suo breve soggiorno nella nostra città, egli visitasse le famose grotte di Postumia.
Qualcuno addirittura in passato ha creduto di identificare la sua firma in uno dei tanti graffiti che compaiono incisi lungo le pareti della cosiddetta “Grotta dei nomi antichi”.
Pochi invece sanno che egli fu attratto anche da una piccola grotta situata nei pressi di Tolmino (Tolmin – Slovenia).
La cavità e i suggestivi orridi formati dal fiume Tolminca impressionarono a tal punto il sommo poeta che egli, così si disse, si ispirò proprio a questi posti per ambientare l’ingresso del suo inferno#.
I versi ” Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, ché la dritta via era smarrita. “, infatti, per chi conosce la zona, ben si addicono ai luoghi visitati dal poeta.
Non sappiamo se tutto ciò risponda al vero oppure se si tratti solamente di una leggenda, ad ogni modo, a testimonianza di ciò non lontano da Tolmino, all’epoca territorio della Contea di Gorizia, esiste tuttora una cavità chiamata “Grotta di Dante” (Dantejeva Jama) all’ingresso della quale su una targa si legge che essa fu visitata dal poeta nell’anno 1319 (Fig. 1).
E’ questa, se vogliamo, la più antica testimonianza di una esplorazione “Speleologica” compiuta nell’ambito del territorio goriziano.

Nonostante le prime documentazioni scritte di una certa attività speleologica a Gorizia risalgano alla seconda metà del 1800, dobbiamo rilevare che alcune sporadiche notizie riguardanti solitarie esplorazioni in grotta, siano ben più antiche.
Solitamente queste erano eseguite a scopo utilitaristico, esse venivano effettuate soprattutto da “cacciatori di cristalli”, uomini cioè che frequentavano l’ambiente sotterraneo alla ricerca di minerali e materiali pregiati; ferro in modo particolare.
E’ così che un nobile cividalese, Virgilio Formentini, appartenente ad una famiglia che prenderà residenza stabile a Gorizia, essendo signore e giurisdicente delle montagne del Tolminato e di Idria, scoprì e mise in attività nel 1497, le miniere di “argento vivo” (mercurio) di Idria.
E’ notorio che all’epoca la ricerca di “cristalli” avveniva spesso seguendo all’interno delle cavità naturali la vena del minerale; questa attività, che era abbastanza diffusa nelle vallate dell’alto Isonzo, probabilmente era praticata a Idria anche dai Formentini.
Io stesso, del resto, ho potuto visitare nell’alta Val Trenta (Slovenia) una di queste “grotte” e devo riconoscere che i primi esploratori dovevano essere stati degli “speleologi” di tutto rispetto. Inizialmente le esplorazioni nel goriziano, dunque, seguono un ordine pratico legato ad un bisogno strettamente economico, del resto anche nella vicina Trieste la speleologia nasce proprio dall’esigenza concreta di doversi approvvigionare d’acqua potabile.
Gorizia essendo invece situata al centro di un anfiteatro collinare e montano ricco di sorgenti e attraversata da un fiume, l’Isonzo, dalle acque limpide ed abbondanti, non aveva certo bisogno di cercare l’acqua; pertanto le ricerche si svilupparono in tutt’altro campo.
I risultati che ne conseguirono furono senza dubbio lusinghieri, visto che proprio a Trenta si sviluppò una discreta attività estrattiva di minerale ferroso.
Sorprendentemente, intorno alla prima metà del 1700, incontriamo un certo Giovanni Fortunato Bianchini che sulle tracce di quanto aveva asserito Padre Pietro Imperati da Duino, sulla continuità sotterranea tra il fiume Recca# ed il Timavo, esplora sistematicamente alcune cavità del Carso triestino alla ricerca di tracce del misterioso fiume ipogeo.
E’ così si scopre, rivoluzionando un po’ le conoscenze attuali, che la primogenitura delle indagini per accertare il percorso sotterraneo del Timavo, spetta a Gorizia e anticipa la data del 1800 indicata dal Forti# quale inizio delle indagini scientifiche sull’accertamento della continuità sotterranea di questo storico fiume.
In effetti il Bianchini, già a partire dai primi anni del 1700, dato per scontato quanto asserito dall’Imperati, si chiedeva come mai la portata del Timavo registrata alle sue bocche presso Duino era di gran lunga superiore alla portata del Recca stesso. Egli pertanto, attraverso attente osservazioni, formula delle possibili soluzioni al problema che poi, con dotte argomentazioni, andrà via via scartando, ma che comunque stanno ad indicare che le indagini da lui condotte avevano una certa base scientifica, il che era senza dubbio un atteggiamento nuovo per affrontare i problemi geografici dell’epoca.
Il Bianchini inoltre nel corso delle sue ricerche, svolte presumibilmente intorno all’anno 1753, si trasformerà in ardito speleologo come avrò modo più avanti di illustrare.
Altro insigne goriziano che si occupò dell’ambiente sotterraneo, anche se marginalmente, fu il nobile Carlo Catinelli, nato a Gorizia nel 1780.
Già nel 1797 egli intraprese una brillante carriera militare che lo portò in vecchiaia, nel 1854, ad ottenere dall’imperatore la corona ferrea di III classe, unitamente al cavalierato austriaco.
Mi sembra doveroso segnalare il Catinelli non per la sua attività militare, ma perché fu uno tra i primi a scrivere dei trattati sul fiume Timavo, questo a dimostrare ulteriormente che già allora anche qui a Gorizia c’era un certo interesse verso questo misterioso corso d’acqua sotterraneo.
Di grotte o comunque di indagini legate al mondo sotterraneo si riparla nel 1871, quando la municipalità di Gorizia, attanagliata dal pressante problema dell’approvvigionamento dell’acqua potabile, incarica l’ingenier Federico Comelli di studiare il percorso sotterraneo del Merzlek.
Verso la fine dello scorso secolo Gorizia era, infatti, alle prese con un problema di vitale importanza: quello della ricerca d’una fonte d’acqua potabile capace di soddisfare le esigenze della sua sempre crescente popolazione. E’ vero che la città disponeva di un numero di pozzi artesiani pubblici sufficienti a garantire i bisogni igienici e alimentari della popolazione, ma i goriziani dell’epoca cominciavano a sentire in modo sempre più insistente la necessità di un vero acquedotto.
Proprio in quegli anni molti studiosi (o addirittura semplici letterati), si occuparono di questo problema, a dimostrazione che i disagi di doversi rifornire alle pubbliche fontane, anche per le piccole esigenze, dovevano farsi particolarmente sentire a tutti i livelli sociali#.
Ho voluto approfondire tale argomento in quanto, come si vedrà, esso è strettamente legato ad alcuni risvolti della storia speleologica di Gorizia e nello stesso tempo consente di conoscere l’opera di un ingegnere gradiscano che per gli studi di idrologia sotterranea eseguiti in quel periodo, deve essere senz’altro rivalutato e considerato, oserei dire, tra i grandi precursori della speleologia regionale.
Così, in quest’ottica, dopo un’accurata ricerca sono riuscito a raccogliere una serie di dati che, seppure frammentari, sono sufficienti a comporre parte della storia riguardante la travagliata vicenda della ricerca d’acqua potabile a Gorizia e, soprattutto, è venuta alla luce la storia di un personaggio affascinante e dalla cultura veramente poliedrica: Federico de Comelli.
A questo punto è bene rievocare, qui di seguito, la vicenda della ricerca d’acqua a Gorizia in quanto essa è strettamente legata all’esplorazione di alcune grotte della Valle di Gargaro, zona questa situata subito a nord della nostra città.
I fatti che si svolsero nel periodo tra il 1870 e il 1887, risultarono, come vedremo, determinanti nella vicenda speleologica cittadina. Attraverso gli studi eseguiti dal Comelli, infatti, furono individuate ed esplorate alcune tra le maggiori cavità situate nella valle chiusa di Gargaro.
Le esplorazioni di queste grotte, che furono eseguite quasi nello stesso periodo di quelle effettuate dal goriziano Carlo Seppenhofer nei dintorni a sud di Gorizia, rivestirono una notevole importanza, in quanto esse facevano parte di un progetto scientifico ben preciso e cioè quello di dimostrare in modo inequivocabile il collegamento tra le acque dello Slatna# e la sottostante sorgente del Merzlek.

Già a partire dal 1870 la città di Gorizia si trova ad affrontare il grave problema dell’approvvigionamento dell’acqua potabile. Le nuove esigenze di una popolazione sempre più crescente ed esigente fanno sì che le numerose fontane pubbliche esistenti in città non siano più sufficienti. I nobili, e non solo loro, vogliono attingere con comodo l’acqua nelle proprie abitazioni, lasciando ai meno abbienti la fatica e l’umile compito di fare la fila in attesa di riempire i secchi alle fontane pubbliche. La città di Gorizia da tempo si riforniva d’acqua potabile attraverso l’acquedotto di Cronberg, che era alimentato rispettivamente: dalla sorgente Jerebizza, dalle due sorgive Perieunich e dal bacino di raccolta denominato “al Respiro”; esse erano però tutte situate su fondi di proprietà dei Conti Coronini-Cronberg.
Proprio riguardo all’uso di queste risorgive negli anni 1885-88 nasce un contenzioso tra i conti Coronini ed il Comune di Gorizia.
L’aumentato consumo d’acqua aveva provocato, infatti, un abbassamento della falda danneggiando gli abitanti di Cronberg che già usufruivano di alcune sorgenti minori denominate Jamschek, Bellingher, Merzla voda e Veliki Potok.
Il contenzioso sfociava nel 1888 in un processo al termine del quale il Comune di Gorizia, pur rivendicando l’uso di questa fonte già da un secolo, riconosceva al Conte Alfredo Coronini-Cronberg la proprietà, ottenendo però una servitù d’uso dell’acqua potabile che si trovava sul suo fondo. L’Amministrazione comunale pertanto, a titolo di rimborso, concedeva al conte una fornitura pari a 10 ettolitri d’acqua giornalieri “per uso del suo palazzo in Zingraf di Gorizia”.
La vicenda costerà all’Amministrazione comunale ben 30.000 fiorini dell’epoca, senza peraltro aver risolto il problema dell’approvvigionamento dell’acqua che nel frattempo stava diventando sempre più pressante e drammatico, se è vero come dichiarava l’allora capo del Civico Ufficio Edile di Gorizia, ing. Bresadola, che il pericolo di epidemie era purtroppo ormai una realtà in città. I Goriziani sentivano infatti imperante la necessità di una cura sempre maggiore dell’igiene e, di conseguenza, dell’utilizzo dell’acqua come elemento base per raggiungere lo scopo.
E’ il periodo in cui, anche sui giornali locali, compaiono con una certa frequenza articoli dedicati a questo argomento; la paura di contagi ed epidemie era nell’aria, palpabile e concreta. Significativi al riguardo sono alcuni articoli comparsi sul “Corriere di Gorizia” nel 1883 dove vengono pubblicate lunghe dissertazioni sull’igiene cittadina e sui metodi per purificare le acque.
Sempre in questi anni possiamo leggere sul “Corriere” quanto alto fosse l’indice di mortalità a Gorizia tra i bambini. Se andiamo a rivedere i necrologi dell’epoca, infatti, possiamo constatare che la mortalità tra la popolazione compresa tra gli 0 e i 10 anni di età era piuttosto frequente ed imputabile presumibilmente a malattie connesse con le scarse condizioni igieniche esistenti all’epoca. A sottolineare la gravità della situazione e l’inadeguatezza dell’acquedotto, il 7 marzo 1883 compare per la prima volta sul “Corriere di Gorizia” un inserzione pubblicitaria di una rivendita di acque minerali della “Drogheria Seppenhofer sita in Piazza Grande N. 9”.
Gli annunci pubblicitari di questo genere andranno d’ora in poi via via intensificandosi e saranno sempre più frequenti, per sopperire ad una ormai cronica carenza d’acqua potabile.
Nel frattempo la falda che alimentava una delle sorgenti Perieunich si era considerevolmente abbassata, e ciò, assieme alle numerose perdite d’acqua dovute alle precarie condizioni delle vecchie tubature, aveva provocato un’evidente inefficienza dell’acquedotto goriziano. Perciò, agli inizi del 1887, l’Amministrazione comunale incarica l’ing. Comelli, che negli anni precedenti aveva acquisito una buona esperienza studiando il percorso sotterraneo del Merzlek, di porre riparo al dissesto idrogeologico di Cronberg e di elaborare un progetto di restauro dell’acquedotto esistente.
Nel corso degli studi il Comelli dopo un primo sopralluogo, constata l’estremo degrado delle condutture; inoltre osserva che la falda soprastante l’acquedotto aveva provocato un pericoloso movimento franoso che già nel 1859-1860 qualcuno aveva provveduto ad arginare inutilmente con la costruzione di un grosso muro.
Denunciando ciò, egli avverte l’amministrazione comunale che se non avesse provveduto immediatamente alle riparazioni necessarie, il movimento franoso avrebbe provocato irrimediabilmente la rottura dell’acquedotto stesso lasciando Gorizia senza acqua#. Il problema dunque ancora una volta rimaneva aperto.
Il 3 marzo 1904, finalmente, il podestà di Gorizia, dott. Venuti, licenziava per le stampe una relazione del prof. Giuseppe Colombo riguardante il progetto della prima parte del nuovo acquedotto della città di Gorizia, auspicando l’immediata costruzione della rete di distribuzione e del serbatoio terminale dell’acqua proveniente dalle fonti di Moncorona (Cronberg)#.
Nell’annosa storia riguardante l’approvvigionamento d’acqua potabile spicca dunque più volte la figura dell’ing. Comelli che prima viene chiamato dall’Amministrazione Civica di Gorizia per studiare la possibilità di captare l’acqua del Merzlek dalle falde sotterranee di Gargaro, poi, vista l’impossibilità di realizzare il progetto, è invitato in qualità di esperto a ripristinare un acquedotto cittadino ormai seriamente compromesso nella sua integrità.

In seguito a questa decisione ci furono accesi e vivaci dibattiti sulla stampa dell’epoca, ma anche nel mondo della “speleologia” locale, discussioni in cui intervenne lo stesso Eugenio Boegan di Trieste.
Come si è detto, questa vicenda è importante per la storia della speleologia della nostra città, in quanto dà l’avvio ad una serie di esplorazioni di alcune importanti grotte situate nella conca di Gargaro subito a nord di Gorizia.
Tra il 1884 e il 1900 ci sarà a Gorizia un periodo di grande fermento intellettuale dove, specie nel campo delle scienze naturali, si metteranno in mostra alcune singolari figure di studiosi di tutto rispetto. Sarà, infatti, nel 1884 che il barone goriziano Carl von Czörnig in occasione di una conferenza tenuta a Parigi, presenterà una dettagliata relazione intitolata: “L’Isonzo, il fiume più recente d’Italia”.
In essa egli indubbiamente interpretando e avvalorando l’ipotesi di antichi scrittori ricorda l’esistenza di un grande lago nel tratto superiore del fiume e un secondo esteso bacino d’acqua situato nel tratto mediano dell’Isonzo le cui acque attraverso delle caverne situate alle pendici del Carso subito a sud di Gorizia davano origine al percorso sotterraneo del Timavo.
Il Czörnig, infatti, a supporto delle sue tesi affermava: “… Le acque dell’Isonzo medio, cioè quelle dell’Idria colla Baca si volsero dall’altra parte. Esse assunsero il loro corso presente (in riferimento al 1884. N.d.A.) fino a quella località situata sotto la città di Gorizia, ove presso il pendio del Carso si trovava un lago che riceveva a occidente detto fiume, (allora nominato Sontius) a oriente invece il Vipacco (allora denominato Frigidus). Questo lago aveva un livello d’acqua circa 16 metri più alto del fiume odierno e si riversava nelle caverne del Carso. All’uscita del medesimo (dopo un percorso sotterraneo di circa un miglio) le sue acque causa la forte pressione del lago molto più alto e le strette aperture, sgorgavano con straordinaria velocità e gran rumore, costituendo l’ammirato fiume Timavo che venne illustrato da quasi tutti i poeti e geografi dell’età classica. …” (A. Comel, 1923).
Se vogliamo in qualche modo giustificare il Czörnig dobbiamo ricordare che l’errore in cui egli è incorso può essere parzialmente spiegato se andiamo a consultare le rappresentazioni topografiche antiche (Fig. 2).
Nella cartografia antica, infatti, spesso le sorgenti del Timavo erano rappresentate in corrispondenza delle pendici sud del Carso Goriziano, se non adirittura come ramo laterale dell’Isonzo. Sarà poi il goriziano Alvise Comel nel 1923, come vedremo più avanti, a rimettere a posto le cose confutando queste tesi con dotte argomentazioni.
Come si vede, le prime documentazioni scritte di una certa attività “speleologica” a Gorizia risalgono alla seconda metà del 1800, esse sono però legate all’iniziativa di singole personalità o comunque conseguenza di particolari studi idrogeologici legati all’ambito cittadino.
In questo periodo di fine secolo però succede qualcosa di particolare, probabilmente legata ad una nuova presa di coscienza e un rinnovato spirito romantico che risveglia nel cittadino medio-borghese la voglia di natura ed avventura. Infatti, a partire da questo momento, si può notare un particolare interesse verso l’ambiente montano che circonda la città.
Se andiamo ad esaminare alcuni trafiletti comparsi nella cronaca del “Coriere di Gorizia” agli inizi del 1883, constatiamo che sempre più frequentemente appaiono articoli dedicati all’attività alpinistica, segno questo dell’accresciuto interesse dei goriziani verso tale disciplina, intesa quasi come una necessità di vita.
L’attività speleologica non viene disdegnata, anzi, sempre sul “Corriere” del 17.03.1883 compare un breve articolo in cui si dice tra l’altro 
“… viene annunciato dall’ “Indipendente di Trieste” che si è costituita la Società d’Alpinisti (Società degli Alpinisti Triestini. N.d.A.) La nuova società ha approvato gli statuti che permettono di istituire nuove sezioni nel Goriziano, …”
Nell’articolo inoltre si afferma che ci sono molti giovani di Gorizia già iscritti.
Lo sbiadito e consunto articolo si conclude poi così 
“… Scopo della società è la, lo studio e l’illustrazione delle montagne in generale e delle Alpi Giulie in particolare, nonché l’esplorazione delle (CAVER)ne# e delle grotte del Carso. …”.
Alla vicepresidenza della nuova società fu chiamato il concittadino Giuseppe Mulitsch e alla presidenza di una delle nove commissioni interne, quella forse più prestigiosa, la Commissione Escursioni, il goriziano Carlo Seppenhofer.
Sarà quest’ultimo che ci lascerà, in seguito, le prime documentazioni riguardanti le esplorazioni effettuate in alcune grotte vicino a Gorizia dalla sezione goriziana della società.
L’attività dei soci goriziani si dimostrò subito vivace e multiforme e rivolta, grazie soprattutto all’interessamento di Carlo Seppenhofer, anche all’esplorazione delle grotte. Naturalmente non ci si deve aspettare da parte di questi primi ed isolati appassionati quelle grandi esplorazioni con cui gli speleologi francesi e quelli dell’allora “litorale austriaco” facevano parlare il mondo di sé.
Ma l’attività di quei pionieri deve venir inserita nell’esatto contesto storico in cui si trovavano costretti ad agire, in un’epoca in cui anche l’esplorazione pura e semplice delle montagne che oggi noi raggiungiamo in macchina ed in funivia, costituiva già un’impresa.
Basti soltanto ricordare, ad esempio, che chi intendeva compiere un’ascesa al Canino (come veniva chiamato allora il M. Canin) doveva farsi a piedi la strada, o meglio il sentiero, da Chiusaforte a Nevea, per poi da qui proseguire sino al vecchio ricovero della S.A.F. posto a Sella Bila Pec, da dove si sarebbe iniziata la salita vera e propria.
Finalmente il 28.03.1883 sempre sul “Corriere di Gorizia” si legge sotto il titolo “Sezione Alpinistica Goriziana”, che 
“… dopo l’annuncio di sabato 17 marzo, venerdì si è tenuto il suo primo congresso generale nella sala della Società “Minerva” … “. Nel corso dell’assemblea si parla di una lettera che annuncia una lista di 35 aderenti di Gorizia che in base all’articolo 5 dello statuto costituiranno una sezione nel goriziano.
Forse è proprio sull’onda di questo evidente entusiasmo e vitalità della nuova sezione che sempre sul “Corriere di Gorizia” del 09.05.1883 compare un breve articolo che annuncia per lunedì 14 maggio, seconda festa di Pentecoste, una gita alla grotta di “Adelsberga” (Grotte di Postumia N.d.A.) 
“… Partenza da Gorizia con treno speciale ore 7.42 arrivo ore 11.46. Partenza da Adelsberga ore 8 pomeridiane e arrivo a Gorizia alle 11.37 di notte, per l’occasione la grotta sarà illuminata con luce elettrica …”
Da quanto sopra evidenziato risulta chiaro che la fonte maggiore di dati sull’attività di quegli anni possiamo ricavarla dalla lettura sia dei giornali locali, sia degli “Atti e Memorie” della Società Alpina delle Giulie, da cui si evince come già nella Pentecoste del 1886 una comitiva di 30 goriziani, in compagnia dei consoci di Trieste e Fiume, si recava a visitare le caverne di San Canziano e Trebiciano.
Il 12 settembre dell’anno 1886 inoltre, nel corso di una salita al monte San Gabriele (m 647), giunti circa a 400 metri di quota “si scoprì”, sono le parole esatte del relatore, “un buco che dava in una caverna che continuava con due fori non praticabili ma che certamente dovrebbero arrivare in caverne più vaste ed importanti e giungere forse a qualche grande bacino d’acqua”.
L’anno seguente, il primo di giugno, Carlo Seppenhofer esplora la grotta di Locavizza, dandone una breve ma completa descrizione sempre sugli “Atti e Memorie”. Dai verbali della Società triestina, pubblicati sul medesimo numero della rivista, veniamo a sapere come i soci residenti a Gorizia propongano alla direzione, in data 7 dicembre 1887, che venga assunta a pigione la caverna di Dante presso Tolmino: la proposta viene accettata e viene nominata una commissione (di cui farà parte, fra gli altri, anche il Seppenhofer) che l’anno dopo visita la grotta. Il progetto purtroppo non ha poi seguito a causa di sopravvenute difficoltà di carattere burocratico.
Nello stesso anno viene scoperta e visitata una nuova grotta presso Canale d’Isonzo; sempre nel 1888, e precisamente i giorni 13, 14 e 15 agosto, Carlo Seppenhofer sale, in compagnia di tre consoci di Trieste e di quattro soci della S.A.F. di Udine, al monte Canino.
Nella relazione da lui pubblicata troviamo la descrizione del Fontanon di Goriuda (grotta che oggi porta il numero di catasto 1 Fr); fra l’altro L’Autore, precorrendo i tempi, dice che “il nominato Fontanone è alimentato dai ghiacciai del Canino e l’acqua ne è frigidissima”.
Proseguendo nella salita lo speleologo-alpinista sosta ai piedi del Bila Pec nella caverna in cui ancora fino a poco tempo fa si vedevano i resti del ricovero costruito dal conte Giacomo di Brazzà, caverna che oggi è stata messa a catasto con il numero 818 Fr.
Passerà diverso tempo prima che si riparli di speleologia a Gorizia o più semplicemente è meglio dire che siamo sprovvisti di dati al riguardo.
Sarà solamente tra il 1920 e il 1930 che emerge una singolare figura, del resto isolata, nel panorama speleologico goriziano, quella di Mariano Apollonio.
Egli, pur abitando a Gorizia, era socio attivo della Commissione Grotte della Società Alpina delle Giulie di Trieste in cui ricopriva la carica di segretario, con questa associazione partecipò alle più importanti esplorazioni del momento.
Drammatica è la sua partecipazione alla sfortunata esplorazione dell’Abisso Bertarelli nel 1925 dove perderanno la vita due dei cinque operai di Raspo che prendevano parte ai lavori di armamento della cavità.
Altra figura significativa nel panorama speleologico cittadino è rappresentata da Renato Boegan, goriziano di adozione, era figlio di Albino uno dei quattro fratelli Boegan di cui il più noto, Eugenio, come si sa è stato uno dei padri della speleologia triestina.
Il sig. Renato, tuttora vivente, è un prezioso testimone dell’evolversi della speleologia nel goriziano. Egli essendosi trasferito a Gorizia in giovane età, assieme a tutta la famiglia, ed avendo vissuto a stretto contatto con il suo celebre zio ha potuto vivere in prima persona alcune vicende che hanno determinato la storia della speleologia regionale negli anni ’30.
Sarà questo un periodo molto proficuo per l’attività speleologica cittadina, attraverso la sua testimonianza, infatti, si scopre che l’andare sul Carso era per i goriziani una pratica abbastanza diffusa, spesso gli interessi speleologici si univano con quelli dei cugini triestini.
Negli anni successivi, però, inspiegabilmente si riscontra a Gorizia un evidente calo di interesse verso questa disciplina e sempre più rari sono coloro che tentano qualche approccio con il mondo sotterraneo.
Solo più tardi, intorno agli anni ’40, si intravede una leggera ripresa delle attività in grotta nella nostra città.
Data la mancanza di gruppi organizzati esse rimangono per lo più isolate e sono effettuate da alcuni appassionati, che troveremo successivamente impegnati in vari gruppi storici.
Il “Gazzettino” del 29 novembre 1941, nella Cronaca di Gorizia, riporta la seguente notizia: “Paurosa avventura di 6 studenti in una Grotta carsica – Rimasti imprigionati per circa 12 ore”.
L’articolo su tre colonne, con foto ricordo, racconta di Sergio Contin, Giorgio Böhm, Alvise Duca, Antonio Vezil, Luigi Pich e Romano Novelli, tutti studenti goriziani, che dopo aver visitato numerose cavità carsiche nell’autunno di quell’anno, hanno vissuto nella Grotta Noè, definita “un antro pauroso che sprofonda a strapiombo per oltre una settantina di metri”, un’avventura drammatica per un incidente occorso; la vicenda si è conclusa tuttavia a lieto fine. Si era trattato, fortunatamente, del parziale tranciamento di un cavo dovuto alla caduta di un masso. In tale occasione, precisa ancora il cronista, il gruppo ha attuato le sue esplorazioni grazie anche a “45 metri di scala d’acciaio, 30 metri di scala di corda, 100 metri di corda ed un triciclo avuti in prestito dalla Sezione C.A.I. di Gorizia”.
L’articolista non precisa se all’epoca ci fosse qualche attività organizzata in seno alla sezione goriziana del C.A.I., ma suppongo che questo sia da escludere, resta il mistero del prestito e dell’esistenza di queste scale, la loro presenza infatti potrebbe far pensare che servissero, seppure saltuariamente, a delle discese in grotta. Purtroppo dati al riguardo non ce ne sono e pertanto possiamo solo far supposizioni.
Troviamo però ancora lo stesso materiale, ceduto in prestito dal C.A.I. al signor Giancarlo Vidoli che nella primavera del 1948 svolge, con il Gruppo Escursionistico Speleologico, una certa attività esplorativa in grotta.
Di questo gruppo purtroppo non abbiamo alcuna documentazione che ne attesti il lavoro svolto e, soprattutto, i risultati ottenuti nel periodo che potrebbe essere individuato tra il 1948 e il 1959.
E’ appunto intorno al 1959 che un gruppetto di persone precariamente attrezzate e prive di un’adeguata esperienza, affrontano l’esplorazione della Grotta di S. Giovanni d’Antro nella valle del Natisone.
Del gruppo fanno parte tra gli altri Enio Turus e Bruno Moncaro, i quali in seguito daranno vita allo Speleo Club Gorizia.
Ufficialmente esso si formerà nel 1962. L’attività di questa associazione avrà breve durata: infatti, nell’ottobre del 1966 si scioglierà per entrare sotto diversa denominazione nelle file della sezione goriziana del C.A.I.
Il nuovo gruppo assumerà la denominazione di Gruppo Speleo “L.V. Bertarelli” e svolgerà per tutti gli anni ’70 un ruolo fondamentale per lo sviluppo dell’attività speleologica a Gorizia.
Verso l’inizio del 1962 però troviamo a Gorizia anche un altro gruppo che svolge prevalentemente attività d’esplorazione dei sotterranei storici della città: è il Gruppo Speleologico Goriziano.
Questa associazione, sotto la guida del suo vulcanico presidente, signor Rinaldo Saunig, porterà avanti a Gorizia un concetto della speleologia tutto nuovo e moderno.
L’attività del gruppo era basata soprattutto sulla comunicazione e la documentazione, grazie anche alle nuove tecniche allora emergenti, esso si distinse specie nel campo delle riprese cinematografiche in super 8.
Vengono girati in questo periodo diversi documentari di cui alcuni veramente all’avanguardia. L’organizzazione, da parte di questo gruppo, di una spedizione speleologica in Turchia costituisce per Gorizia un fatto nuovo e rappresenta un primo passo verso un diverso tipo di speleologia.
Nel frattempo la speleologia cittadina si arricchisce di un nuovo gruppo, la Speleo Equipe Goriziana, associazione che avrà vita brevissima, ma che vede la presenza al suo interno di persone che in seguito contribuiranno in maniera significativa allo sviluppo della medesima permettendo ad essa di travalicare i confini della provincia.
Negli anni ’70 la speleologia a Gorizia subisce un rapido incremento, cresce e prende consistenza e le poche associazioni esistenti, anche se piuttosto slegate tra di loro, iniziano in questi anni a gettare le basi per quella che sarà la speleologia attuale.
Sono questi gli anni in cui all’interno del territorio provinciale si sente la necessità di riunire le forze tra i vari gruppi grotte.
Con la costituzione, non senza difficoltà, di un Comitato di Coordinamento dei Gruppi Speleologici della provincia di Gorizia, vengono gettate le basi per quella che in futuro diventerà la Federazione Speleologica Isontina. Del nuovo comitato faranno parte sia il G.S. “L.V. Bertarelli” che il G.S. Goriziano, essi contribuiranno in modo costruttivo alle iniziative comuni anche se a onor del vero, una vera e propria attività di questo organismo non è mai decollata in modo concreto.
Intanto nei primi anni del ’70 si registra un’intensa e frenetica attività del G.S. Bertarelli grazie anche all’arrivo di nuovi elementi tra cui Maurizio Tavagnutti, Roberto Reya, Marco Sfiligoi, Ulderico Silvestri che daranno un nuovo impulso alla speleologia cittadina. Vengono, infatti, intraprese nuove strade e indirizzi esplorativi, per la prima volta il campo d’azione degli speleologi goriziani si rivolge all’ambiente d’alta montagna del vicino Friuli.
Il M. Canin è la località presa in esame dove i triestini avevano già effettuato imprese notevoli e di grande impegno fisico registrando successi non indifferenti soprattutto nell’esplorazione dell’abìsso Gortani.
Ma non è soltanto nel campo esplorativo che si svolge la grande rivoluzione della speleologia goriziana; la partecipazione a convegni, incontri e contatti con il resto del mondo speleologico nazionale forma negli uomini del G.S. “L.V. Bertarelli” una nuova mentalità, dinamica e moderna. Purtroppo questo comportò uno scontro generazionale tra la componente giovane del gruppo e quella conservatrice e più legata, se vogliamo ad una certa mentalità chiusa e poco disposta al dialogo.
Nei fatti non si era capito che era ormai, con l’introduzione delle nuove tecniche d’esplorazione, la speleologia regionale stava cambiando in modo drastico.
Credo che questo fatto, in quegli anni, sia stato determinante per cambiare il modo di andare in grotta, ma soprattutto ha contribuito in modo significativo alla formazione mentale dei gruppi grotte.
L’andare in grotta con scale e corde comportava che le esplorazioni in quegli anni dovessero essere eseguite da gruppi piuttosto numerosi i quali trovavano in questa tecnica anche un motivo di aggregazione e cameratismo davvero particolari e unici.
Viceversa le tecniche di “sola corda” implicavano di conseguenza la formazione di piccoli gruppi d’esplorazione; spesso essi erano formati dall’aggregazione anche di elementi provenienti da associazioni diverse, si andava perciò al di là del concetto di “gruppo” inteso nel senso classico della parola.
Tutto questo costituiva indubbiamente una rivoluzione nel modo di pensare ed intendere la speleologia che metteva a disagio la vecchia generazione e lo si deduce chiaramente dai numerosi articoli che compaiono in quel periodo sulla stampa specializzata#.
Purtroppo l’ambiente conservatore della sezione goriziana del C.A.I. non riuscì a capire il momento storico che viveva la speleologia goriziana e pertanto sarà determinante nel provocare una netta rottura tra le due generazioni.
Nel 1978, infatti, in seno al G.S. “L.V. Bertarelli” avverrà una scissione che darà origine alla formazione del Centro Ricerche Carsiche “C. Seppenhofer”.
La nuova associazione, raccogliendo l’esperienza dei migliori elementi provenienti dai vari gruppi grotte provinciali tra i quali Maurizio Tavagnutti, Ugo Stoker, Diego Pellis, Fulvio Ladini, Graziano Cancian, metterà subito a frutto i segnali che la nuova speleologia stava cominciando a trasmettere.
Le prime fortunate esplorazioni in Canin vengono, infatti, condotte e portate a termine con squadre composte da elementi provenienti da vari gruppi grotte regionali e non, secondo un concetto del tutto attuale. Memorabili furono le esplorazioni condotte tra il ’78 e l’80 all’interno dell’Abisso Comici e Seppenhofer che videro la presenza contemporanea accanto agli speleologi goriziani anche di bolognesi, triestini e inglesi.
I risultati di questa nuova politica ovviamente furono subito visibili e concreti, tra il ’78 e la fine degli anni ’80 il Centro Ricerche Carsiche “C. Seppenhofer” ottenne numerosi riscontri sia sul piano esplorativo, ma soprattutto in quello scientifico grazie anche a Graziano Cancian che aveva incrementato in modo significativo la ricerca in questo campo.
Tutto il resto è storia recente.

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